Era abitudine quando ero bambino che in molte famiglie oltre a galline,anatre, conigli ci fosse anche il maiale. Alcune di queste, più fortunate, possedevano anche la mucca. In tutti i casi era bestiame che veniva allevato fin da piccolo per farlo crescere sano e ingrassarlo al punto giusto per essere macellato. Nella contrada dove sono cresciuto detta dei Venturato ho potuto vedere molti di questi animali da vicino. Tra tutti quello che ha sempre destato maggiormente la mia attenzione era il maiale. Che puzzone il maiale! Quando mio nonno Angelo mi portava davanti al porcile, mi impressionava molto vedere come mangiava il maiale. Agguantava il cibo senza un ordine e perdeva pezzi dai lati della bocca. Insopportabile la puzza e per di più, senza farsi troppi problemi camminava sopra i suoi escrementi. Mio nonno si occupava della sua pulizia e mi sono sempre chiesto con quale coraggio (o stomaco) riuscisse a farlo tutti i giorni. Ricordo le raccomandazioni più importanti: “non avvicinare troppo le mani alla bocca del maiale perché te le può staccare”… “non ti fidare della stazza del maiale perché può girarsi contro in un batti baleno …” Che animale strano il maiale pensavo! Quando cammina sembra una palla in movimento, è buffo. Ma una cosa che da bambino non capivo era come poteva essere che un animale così sporco e puzzolente fosse destinato a finire sulle tavole di molti contadini. E anche io ne ero un buongustaio. Ma quando il maiale veniva trasformato in quelle succulente salsicce o bistecche morbide e prelibate o a quei salami gustosi? L’occasione arrivò quando vidi per la prima volta la macellazione del maiale. Questo evento mi rimase impresso in testa e ancora oggi il ricordo ritorna come uno stampo a caldo sulla pelle. Il rituale dell’uccisione del maiale coinvolgeva tutta la famiglia, ma la persona più importante di tutti in questo momento era la figura così detta del “porziter”. Il porziter era un signore (e solitamente era un signore dai tratti somatici e caratteriali molo particolari) che conosce l’arte della macellazione della carne del maiale dall’uccisione al “confezionamento”. Dico “arte” perché solo i più bravi sanno trarre il maggior profitto in gusto e qualità degli insaccati. Mi ricordo che tutto iniziava con la preparazione di un bidone enorme, vecchio e arrugginito, pieno d’acqua posizionato sopra una griglia. L’acqua del bidone veniva scaldata da un fuoco acceso da fascine. Le fascine erano dei grandi fasci di rami secchi potati dai salici campestri. Il maiale veniva bloccato da due o anche tre uomini che dovevano tenere la bestia ferma il più possibile per permettere ad un altro di sgozzarlo con un taglio rapido e incisivo in gola. Un minimo errore e sarebbero stati guai seri per tutti. L’urlo del maiale era una cosa brutta, aspra e fredda da sentire. Uiii, Uiii, Uiii. Che pena. Subito dopo lo sgozzamento si posizionava il maiale in posizione orizzontale sopra a un tavolaccio e gli veniva raschiata la pelle con l’acqua calda. Mamma mia che puzza. Preso per le gambe posteriori veniva poi issato su una trave in acciaio della stalla e a testa in giù sgocciolava il sangue… Aspettate, la testa non c’era. Era stata tagliata ad un qualche momento che non ricordo, ma ho ben presente l’immagine della testa appesa con un uncino a parte. In un secondo momento la pancia dell’animale veniva squarciata con un coltello affilatissimo, dall’alto verso il basso. Da qui venivano estratti gli organi interni e le budella. Tutti gli scarti del maiale venivano seppelliti dentro una buca fonda scavata appositamente lungo i filari delle viti. L’animale veniva successivamente sezionato. Mi ricordo mia nonna Elvira quando mi cucinava le bistecche freschissime sopra la stufa. Dio mio che squisitezza. La carne del maiale si scioglieva in bocca. La cucina della vecchia casa colonica si riempiva all’improvviso di tanti uomini al lavoro. Il freddo inverno di dicembre non bastava a raffreddare il calore di quei bellissimi giorni. Le primissime fasi che portano all’uccisione del maiale rimangono ancora nel mio ricordo di bambino con un pò di paura mista a pena per l’animale stesso, ma il clima di festa e il calore della famiglia di quei giorni mi ricompensava di serenità e gioia. Sì, giorni..perché era una lavorazione lunga e l’occasione per stare insieme, mangiare tanto, ridere, raccontare storie, bere. Aldo Tronchin era uno dei famosi porziteri, famoso per insaccare i salami. Mi ricordo con quale maestria li salava, pepava e speziava; poi li punzecchiava con un attrezzo specifico per far uscire l’aria dal budello pieno di carne. Sopra un’altra tavola della cucina la carne veniva lentamente macinata tante volte quanto il porziter ordinava. Anche in questo stava la bravura. Glin, glin, glin, glin. I salami venivano di seguito portati in cantina a stagionare. La cantina era la stanza più fredda della casa colonica posizionata a nord. Fino a non molti anni fa il frigorifero non esisteva, pertanto la cantina o il pozzo permettevano di mantenere per un breve periodo il cibo al fresco. Per aumentarne la durata il cibo veniva salato. Il salame veniva appeso alle travi di legno del solaio dove si legava a sua volta il fondo circolare di una latta per impedire ai topi di avvicinarsi al cibo. Del maiale non veniva mai buttato niente oltre gli scarti. Con il maiale mangiava un’intera famiglia per un anno. Unica fonte di sostentamento oltre alla polenta offerta dal grano macinato. Oggi compro la carne al supermercato, la scongelo nel microonde e la mangio di fretta. Buona la succulenta bistecca della nonna.
Non avrei mai pensato che il povero maiale, potesse avere l’onore di apparire in un blog, di tale levatura.
Ricca descrizione di una tragica fine, ma presentata in maniera così delicata, che alla fine non toglie il desiderio di gustarsi una bella fetta di prosciutto, a me piace anche con un poco di grasso, o di una bella profumata bistecca.
Profumata? Si, profumata… Che trasformazione incredibile, dal puzzo del porcile, dal vederlo che mangia e toglie l’appetito a vederlo, adesso ben preparato, che profuma ed è oggetto di desiderio sulle tavole.
Complimenti, per la descrizione, che riporta indietro nel tempo, cose che solo chi le ha vissute ricorda, ma che con questo simpatico racconto ogni lettore di qualsiasi età, lontano dai vecchi casolari dei nostri nonni o dei nostri padri, lontano anche dall’Italia, a Parigi, NewYork o come, Montreal, può quasi dire: “C’ero anche io!”
Grazie.