Lorenzo Perissinotto – Testimonianza – ottobre 2018 – Noventa di Piave (VE)
Il Burcio o Burchio
Disegno tratto dal sito internet: http://www.cherini.eu/etnografia/Italia2/index.html
Il burcio o burchio era una grossa imbarcazione da trasporto fluviale, lungo al massima m 35, largo m 7/9, con un’altezza a poppa di m 2,30, una portata massima di t 8/25, un’immersione a vuoto di m 0,50 m e a pieno carico di m 1,30/1,50. Il suo fondo era piatto e non a chiglia. L’imbarcazione era divisa in tre scomparti: la poppa posteriore, la prua o prora anteriore e la sentina, ossia la parte più bassa dell’imbarcazione adibita al carico della merce. Questa era soggetta a riempirsi di acqua la quale veniva espulsa tramite la “sessola”.
La prora.
La poppa. Disegni tratti dal sito internet: http://www.cherini.eu/etnografia/Italia2/index.html
Nella poppa alloggiava il padrone del burchio chiamato peota (pilota), mentre nella prua alloggiavano i mozzi (l’equipaggio). Il burchio era adottato di vele e di due alberi (maestro e di seconda) per navigare a cabotaggio (vicino la costa) nella laguna di Venezia. Questi potevano essere abbattibili per permettere all’imbarcazione di passare sotto i ponti dei fiumi. Essendo a fondo piatto e per evitare l’affondamento il burchio non poteva allontanarsi in mare aperto. Gli alberi erano infissi su un tronco, a sua volta fissato sul paramezzale, ossia la spina dorsale del burchio lunga circa m 30. Inchiodati al paramezzale vi si trovavano i sanconi che erano le costole della barca. A questi veniva inchiodato il fasciame (le tavole) che ricopriva il burchio. I chiodi erano quadrangolari e forgiati a mano. Tra una tavola e l’altra vi era sempre una fessura chiamata chimento la quale veniva tamponata con la stoppa (quella che usano gli idraulici) tramite scalpellini. Il fasciame veniva poi impermeabilizzato all’esterno con la pece fusa (catrame) detta pegola. Questa veniva scaldata e poi sciolta nei “caglieroni” per poi essere pennellata sulle tavole con un mestolo/pennello chiamato scovolo. Questo era composto da un manico lungo attaccato a della lana di pecora. Le tavole del burchio venivano sagomate dai maestri d’ascia con un attrezzo appunto chiamato ascia (simile a una zappa).
L’albero abattibile. Disegno tratto dal sito internet: http://www.cherini.eu/etnografia/Italia2/index.html
Il burchio era adottato di due ancore: una a quattro marre, per tenere ferma la barca quando l’acqua del fiume era calma, e un’altra a due marre, chiamata ammiragliato, per l’acqua mossa. L’imbarcazione era dotata di boccaporti, ossia n. 25 tavole curve a incastro, numerate, che coprivano la merce preziosa collocata nella santina. L’imbarcazione poteva trasportare merce come: sabbia, ghiaia, “balle di iuta dello iutificio di Noventa di Piave, derrate alimentari e cereali.
I boccaporti che coprono la santina. Disegno tratto dal sito internet: http://www.cherini.eu/etnografia/Italia2/index.html
I burchi venivano trainati con delle corde agganciate alla prua (all’”ocio” o al “brocon”) da due uomini appiedati i quali si avvolgevano una cinghia attorno alla schiena chiamata ansana e percorrevano un tratturo lungo il fiume detto alzaia. Tutte le rive del fiume erano prive di alberi e tenute pulite per poterci far correre sopra la corda da traino dell’imbarcazione. Il cambio turno degli uomini avveniva dopo cinque ore di lavoro presso un capanno coperto chiamato restera, dalla quale successivamente venne indicato tutto il tratto di terreno antistante il fiume.
Per muovere il burchio ci si serviva anche di remi lunghi m 7/15 utilizzati dai mozzi, i quali conficcavano il remo sul fondale del fiume, spingevano il natante, e dopo aver alzato di nuovo il remo correvano in avanti, sopra una tavola chiamata corridore, per ripetere l’operazione. Lo scarico della merce dalla santina/stiva alla riva avveniva tramite un ponte, ossia una grossa tavola lunga m 8/12, larga m 0,40 e grossa m 0,10, percorso da uomini chiamati cariolanti (per l’utilizzo della carriola).
Nella parte esterna della prua del burchio vi si trovavano dipinti due occhi bianchi che servivano per esorcizzare gli spiriti maligni del fiume.
Il burchio era dotato di un battello detto cucciolo che serviva per raggiungere la barca dalla riva quando questa era ferma e veniva legato poi alla poppa dell’imbarcazione per seguirla negli spostamenti.
Il burchio aveva una durata di circa 70/80 anni.
Lo squero
Nel porto di Noventa di Piave vi era uno spazio dedicato alla manutenzione e varo dei burchi, appunto chiamato squero. Era dotato di una rampa che scendeva verso l’acqua del fiume Piave, la quale permetteva, tramite degli assi intrisi di grasso, di tirare in secca o varare le imbarcazioni. La costruzione vera e propria, invece, avveniva nel Cantiere dei fratelli Tonini che si trovava nella riva opposta all’abitato di Cà Memo, a Fossalta di Piave.
Il varo dei burchi era di tre tipi e dipendeva principalmente dal tipo di fondale.
A prua in avanti;
a poppa indietro;
a s-ciafà di lato.
I burchi venivano costruiti non solo per il fiume Piave ma anche per altri fiumi del Veneto e si distinguevano tra loro per nome e misura.
Per citarne alcuni c’erano:
i burchi alla Padovana e i burcei sulle zone del Piave, Brenta e Bacchiglione;
i bragozzi e i topi a Chioggia;
la rascona, gabarra e comacina sul fiume Po;
la pescantina a Verona. Quest’ultima veniva costruita presso il Cantiere dei fratelli Cobelli a Pescantina in Provincia di Verona. La pescantina era un burchio più snello (m 32 x m 5) del nostro burchio perchè dovevano adattarsi al fiume Adige.
Le Zattere
“Un bosco sommerso, un Cadore rovesciato” (la città di Venezia è sorretta da un bosco di alberi (palafitte) provenienti dal taglio dei boschi del Cadore);
“L’arte del zatter el xe in acqua morir e l’arte del mercante xe quela de fallir” (i zatterieri possono morire schiacciati dai tronchi nelle acque del fiume, mentre i mercanti di Venezia possono fallire).
All’inizio della primavera di ogni anno nei boschi del Cadore venivano tagliati e puliti gli alberi di: faggio, pino, abete e larice. Questi venivano fatti scivolare dai versanti sull’acqua del fiume Piave e trasportati per mezzo della corrente al Cidolo di Perarolo, una stretta gola del fiume Piave nella quale venivano bloccati e ammassati. Nel mese di luglio i tronchi partivano dal Cidolo di Perarolo su zattere, formate dagli stessi tronchi o da tavole già tagliate, per le varie destinazioni. Una grossa quantità di legname approdava presso la fondamenta delle zattere in Giudecca a Venezia e serviva per la palificazione della città lagunare, mentre altro legname serviva per la costruzione delle imbarcazioni negli squeri.
Le zattere erano formate da un massimo di tre coppole (copule), una dietro l’altra, dove ogni coppola era fatta di 18/20 tronchi appaiati, lunghi m 6/8 e legati tra loro da corde di canapa. Erano governate con due remi anteriori e due posteriori dai zatterieri (zatteri, zattieri, zatter, menadas) ossia degli “operai” pagati dai padroni dei tronchi per compiere il trasporto del legname.
Il lavoro dello zatteriere era molto pericoloso, soprattutto nel tratto più torrentizio del fiume Piave, da Perarolo a Nervesa, in quanto poteva accadere che le coppole si slegassero, lungo il tragitto, incorrendo nel pericolo di morire imprigionati fra i tronchi, nel tentativo di arpionarli, avvicinarli e ricomporre la zattera.
A Noventa di Piave l’attività del legname era gestita dalla famiglia Zuliani.
La maggior parte del transito delle zattere cessò con la prima guerra mondiale, qualche rara zattera transitò nel 1919, per poi cessare definitivamente nel 1925 con l’ultimo attracco presso il porto di Nervesa.
Il Porto di Noventa di Piave
Il Porto di Noventa di Piave contava una flotta di circa n. 18 / 25 burchi per poi passare a n. 35 / 40 con la fondazione della “Società della Ghiaia del Piave” che venne fondata tra gli anni 1929 e 1930 dalla fusione di cinque ditte artigianali gestite da: Antonio Cester, Pietro Nardini, Massimiliano Orlando, Angelo Ferrari e Pietro Canever. La sua maggiore ricchezza venne raggiunta tra gli anni 1948 e 1960 per poi cessare nel 1970. Nella Società vi lavoravano circa 150 operai tra: “barcheri”, caricatori e scaricatori di porto, manovali, uomini dello squero, ecc. L’attività si svolgeva nel Porto fluviale di Noventa di Piave per la produzione della ghiaia, tramite i frantoi, e nel fiume Piave per il trasporto della merce con i burchi. Tra gli anni 1950/60 la Società si adottò di camion per il trasporto della ghiaia su strada. Tra le sue opere ci fu anche la costruzione di Piazza Drago a Jesolo e molte altre strade del nostro territorio.
I nomi, l’anno di costruzione e la stazza delle barche della Società della Ghiaia del Piave: Isonzo 1937 t 120, Tagliamento 1940 t 120, Adige 1940 t 120, Ticino 1941 t 120, Adda 1941 t 150, Mantovana 1916 t 70, Piave 1937 t 120, Arno 1937 t 120, Ferrarese 1916 t 70, Po 1941 t 130, Livenza 1940 t 120, S.Antonio 1930 t 70.
Il Frantoio
Il frantoio era collocato dentro il porto di Noventa di Piave ed era una costruzione in cemento armato dove al suo interno vi si trovavano dei grossi cesti in acciaio e dei vagli di varia misura. In questo si gettavano i sassi provenienti da Ponte di Piave che venivano macinati da grosse “mascere” alimentate ad energia elettrica. Gli operai del frantoio iniziavano a lavorare alle quattro del mattino e cessavano alle dieci di sera.
La Draga
La draga della Società della Ghiaia del Piave era un natante che serviva per la pulizia dei fondali del fiume Piave e permetteva ai burchi di non bloccarsi nelle secche. La draga terminò il suo lavoro con la chiusura della ditta e da allora i fondali del fiume Piave non sono mai stati più puliti. Purtroppo tutto questo ha causato l’innalzamento del livello della terra sul fondo del fiume e la diminuzione della sua portata.
Le “Burcee”
Le “burcee” erano delle imbarcazioni di piccola taglia con una capacità di carico inferiore di ¾ rispetto al burchio e venivano impiegate per il trasporto della ghiaia dalle cave di Ponte di Piave al frantoio nel porto di Noventa di Piave. La ghiaia era caricata e scaricata dall’imbarcazione a mano per mezzo dei “cariolanti” i quali si servivano, per il loro lavoro, di una pala chiamata “palot”. Con il “palot” gli operai bevevano anche l’acqua del fiume Piave.
La Cassa Peota
Il comandante del burchio si chiamava peota e gestiva una flotta di nove uomini detti mozzi che venivano salariati il sabato di ogni settimana. Il gesto di consegnare i soldi venne chiamato “cassa peota”.
Ringraziamenti: Lorenzo Perissinotto per la testimonianza e Antonio Mucelli per la disponibilità del suo bar da Elio per l’intervita.
Da ricordare: Lorenzo Perissinotto ha scritto il Libro: Polvere del frantoio, romanzo autobiografato. Stampato dalla tipografia “Il bozzolo verde” di Cà Turcata di Eraclea.
Straordinario!Io sono nata a Noventa e tutti i parenti da parte materna vivono ancora li.Pur vivendo da tanti anni a San Donà , mi sento Noventana a tutti gli effetti e spesso quando passo per via Del nove e rivedo la casa dove sono nata, provo una grande emozione.Il nonno materno lavorava come “barcher” e questa storia la conosco bene! Mi ha fatto piacere che l’abbia fatta conoscere anche a tante persone perché è la nostra storia e se nessuno la ricorda è come non fosse mai esistita, perciò ” grazie di cuore”.
Sono sempre Giovanna e nell’occasione volevo approfittare per ricordare che io sono la nipote di Nino Orlando ” del caval” .Forse qualcuno lo ricorderà da parte mia è sempre nel mio cuore.Giovanna Rossi.
Così si salvano le memorie che altrimenti andrebbero inesorabilmente perse per sempre. Doveroso quanto encomiabile il tuo sforzo. Lodevole. Sono le ns radici. La nostra storia. La vita dei nostri genitori, dei nostri nonni. Finché li ricorderemo, continueranno a vivere. Complimenti 🎈🎊🎉🍾 Michele. Senza la conoscenza del nostro passato non è possibile andar avanti.
Mi chiamo Alvaro Mazzanti. Se può interessare, come testimonianza diretta, un piccolo apporto di esperienza vissuta da ragazzo. Sono stato imbarcato come mozzo sul burcio denominato “Unione” di Grado. Due brevi periodi registrati sul mio libretto di navigazione. Imbarcato a Grado il 14-12- 1956 sul M/V denominato Unione iscritto al n 388 dei registri di Trieste. Stazza lorda T. 28,98. Destinazione traffico costiero.
Sbarcato il 23-12- 1956 a Grado per licenza. seguì un successivo breve imbarco. Navigazione: Da Trieste a punta Sdobba dove entravamo nell’Isonzo per caricare ghiaia. Le operazioni di carico erano una serie di manovre alquanto pericolose e creative al contempo, non era raro che qualcuno finisse in acqua, gelida in inverno. Data l’età, allora avevo sedici anni, e il resto dell’equipaggio erano già grandi, ritengo di essere l’ultimo testimone di quell’imbarcazione. A disposizione. almazdue@gmail.com
Nino del caval veniva sempre in bottega da Meno Tonet che riparava biciclette e Io ero il garzone e mi ricordo che aveva la mano senza le dita perché il cavallo le aveva morsicate.inoltre da bambino nei burci ci sono salito e andavo con mio padre Bruno che lavorava sotto la società ghiaia bei ricordi!!!!!