Lorenzo Perissinotto – Testimonianza – ottobre 2018 – Noventa di Piave (VE)
Lo squero era calmo: l’acqua del fiume andava e tornava tra i canneti come amorosa madre che i piccoli non scorda. I burchi superbi si dondolavano distesi: dalla acace verdi, un merlo con occhi di fuoco, tuonava di petto tentando di stancar l’eterno verso della cicala. La campagna suonava a martello: era l’ora della veglia. Dentro ai bar, gli uomini forti e neri, giocavano tranquilli e le strade ariose stendean gli arti sino alle campagne in fior. Eri pur il mio mondo, il mio piccolo, sublime sconfinato mondo! Ed or, macilento e tremante, col fardello amaro dei miei errori, cerco invan il tuo profumo di vita: ti ho sporcato per sempre, mio mondo! L’anatra spaurita se n’è andata: le lepri son morte nelle tane fetide, il cardellin è caduto dal nido: la gola arsa cerca acqua e gli occhi folli la luce del sol. Piango! Il volto assasino copro, timoroso che gli alberi spettri mi accechino per non turbar col guardo tua morte. piango, oh mondo oh terra mia! Perchè la nobile natura ci fa crescere e divertire grandi!… (Il mio quadro di Lorenzo Perissinotto).
Lorenzo: Fino all’anno 1958 io bevevo l’acqua che mia mamma andava a raccogliere con dei secchi nel fiume Piave e mi ricordo che ci diceva di aspettare che si depositasse la sabbia prima di ingerirla. L’acqua era inodore, insapore e incolore. Abitavo dentro la golena, indicativamente di fronte al cimitero di Noventa di Piave, che stava dall’altra parte dell’argine e in casa non avevamo ne il pozzo, ne l’acquedotto che venne costruito nel 1959. Inizialmente arrivo’ nel cimitero del paese e poi in centro, vicino al tunnel e al bar di “Iiotti Sfera”. Il bar era un luogo frequentato dagli operai del porto i quali, ricordo, bevevano il cognac, la grappa, il grigio verde (un mix di menta e grappa/china) e il chin-con (un mix di china e cognac) prima di inziare a lavorare al mattino.
Da “Iioti Sfera” andavo anche, spesse volte al giorno e volentieri, a barattare le uova di gallina con le sigarette per mio zio, che all’epoca venivano vendute sciolte, e tornavo a casa con le caramelle. Due uova corrispondevano a due sigarette, ossia un’Aurora (corta) e una Stop (lunga) e a tre caramelle Golia. Per barattare il cibo e mangiare tenevamo circa 150 galline, il maiale e tre mucche. Il baratto era l’unica moneta per la nostra famiglia povera. Mia mamma scambiava le uova per un paio di calze, una manciata di fagioli, le schie (gamberetti della laguna veneta) e le sarde per noi bambini. Per comprare invece oggetti di valore ci si serviva delle galline o dei conigli. Il baratto venne sucessivamente sostituito con il libretto, “cardensa”, nel quale segnavamo, durante l’anno, le quantità di pane consumato o gli alimenti “della bottega del casoin”. Per saldare il debito utilizzavamo la bustapaga di mio padre che lavorava come autista di camion presso la Società della Ghiaia del Piave a Noventa di Piave. Il suo salario era abbastanza alto in quanto percepiva “trentazinque mie franchi” (35000 lire) al mese rispetto a un salario medio di 25/30000 lire.
Mi ricordo che fino al 1960, durante l’inverno, ci radunavamo nella stalla per fare il “filò” e scaldarci dal freddo perchè era l’unico luogo caldo della casa. Noi bambini ci divertivamo assieme, i vecchi fumavano e giocavano a carte, mentre le donne lavoravano. Limavano le zappe, i badili e ne ricostruivano i manici se servivano. Mia nonna filava, ricamava i pizzi o i merletti e cuciva le scarpette per i bambini.
Un inverno freddissimo, circa nell’anno 1953/54 nevicò talmente tanto che al mattino non riuscimmo nemmeno ad aprire la porta di casa e pertanto mio zio si servì della finestra per uscire dall’abitazione. La neve sfiorava il davanzale.
Ogni anno, in autunno il fiume Piave saliva di livello in seguito alle piogge e ad avvertirci dell’arrivo dell’acqua erano le mucche, che nella stalla si agitavano. L’acqua solitamente sfiorava la soglia della porta di casa, ma nell’anno 1966 arrivò alla sommità arginale e la mia abitazione venne sommersa fino al secondo piano. La piena tracimò a Romanziol per poi sfondare l’argine a Zenson di Piave portandosi dietro il cimitero del paese e trascinando i cadaveri fino a Sant’Andrea di Barbarana. Quando l’acqua si prosciugò si presentò il problema delle epidemie, dovuto ai cadaveri delle bestie morte annegate, e pertanto, vennero scavate delle buche fonde anche dieci metri e ricoperte di calce per seppellire le mucche.
A volte capitava che la piena del fiume Piave raggiungesse la prima metà dell’argine e in questo caso portavamo in salvo gli animali. Le mucche all’esterno della golena, dai miei cugini affittuari della famiglia Nardini, e gli animali da cortile nella sommità arginale.
Dopo l’alluvione del 1966 il Genio Civile ci diede dei soldi per permetterci di comprare un’altra casa fuori della golena, divenuta pericolosa, e con questi ci spostammo in via Guaiane assieme alla famiglia della Fidelma Ferro. Pur avendo ricevuto i soldi, le famiglie dei Mestre e dei Tonel rimasero ad abitare dentro l’argine a loro rischio e pericolo. Mestre purtroppo era obbligato a rimanere per il suo lavoro che si svolgeva presso il porto di Noventa.
Della mia vecchia casa mi ricordo quando aravamo i campi con il trattore, verso gli anni 1958/60, e da questi risalivano in superficie le bombe inesplose della Prima Guerra Mondiale e i fucili, mentre dagli argini del Piave, con un semplice scavo, poteva succedere di incappare in qualche trincea autroungarica. A mio nonno invece è capitato di rinvenire degli scheletri di soldati morti.
Nei nostri campi coltivavamo cereali come il mais e circa 30/40 quintali di uva all’anno. Purtroppo il terreno sabbioso non permetteva di fare molto grado. Avevamo l’uva da tavola Bacò e il “Fragoin nero”, che non occorrevano trattare dalle malattie, e quasi un ettaro di vigneto di Merlot. In testa al vigneto c’erano i “moreri per il cavalier” (alberi di mora per i bachi da seta).
Mi ricordo che i bachi da seta li andavo a prendere a “onse” (circa 10 grammi), sopra dei piccoli telai, presso il castaldo Piero Toscani della famiglia dei Cà Zorzi. Erano uova di farfalla che uscivano dal bozzo e si presentavano alla vista come dei puntini neri. Da queste uova uscivano i cavalieri. Tagliavamo la foglia di mora con un “falzin” e mettevamo i cavalieri sopra, che piano, piano se la mangiava, crescendo. Il “falzin” e una specie di trancia. Quando i cavalieri diventavano grandi producevano il bozzo o “gaetta” che noi andavamo a “sgaetar” (togliere) dai rami tagliati dell’albero di mora. Per questo lavoro di pulizia avevamo un attrezzo apposito e bisognava stare attenti a non schiacciare la “gaetta” perchè dentro a questa c’era la “paveia” (farfalla) che a sua volta produceva circa 500 uova ricominciando il ciclo. La “gaetta” l’andavamo a vendere perchè da questa producevano la seta e ci pagavano molto bene.
I cavalieri si chiamavano così perchè quando mangiavano emettevano un suono simile al trotto dei cavalli.
Nella mia famiglia, oltre ai miei genitori, eravamo in dieci fratelli. Mia mamma si chiamava Adele Fontebasso e mio papà Pietro Perissinotto. Lui aveva una sorella di nome Maria Perissinotto e un fratello di nome Berto che non si sono mai sposati. Mio fratello più grande lavorava come beccher (macellaio). Alle anagrafe sono iscritte 32 famiglie di Perissinotto e all’epoca venivano distinte tra di loro con un sopranome. Ad esempio, con me lavorava un certo Tiozzo Tommaso, da Chioggia, detto il “Caenasso”. La nostra famiglia di distingueva dalle altre con il nome “Gattini” mentre, di altre che ricordo, vi erano le famiglie dei “Burie”, ossia dei muratori, dei “Cepui” e i “Caregheta”, perchè costruivano sedie.
Mio papà durante la seconda guerra mondiale partì per il fronte in Africa e poi venne fatto prigioniero dagli inglesi per ben quattro anni, dal 1943 al 1947. Si adoperò come autista delle truppe inglesi ad Alamein. Mi raccontava che riceveva le sigarette dentro a dei barattoli tondi. Dagli inglesi, mio padre, non era considerato un internato militare, ma un prigioniero di guerra con una “certa libertà”. Quando tornò dalla guerra proseguì la sua attività di autista di camion rimorchio presso la Società Ghiaia del Piave.
Mio nonno paterno si chiamava Agostino Perissinotto e lavorava allo Iutificio di San Donà di Piave mentre mio nonno materno lavorava come mezzadro dalla famiglia Nardini.
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