Michele: Agostino Montagner quali origini ha la tua famiglia?
Agostino: Dai racconti dei miei avi la famiglia Montagner ha origini francesi. Questa, pare si sia allontanata dalla Francia a causa di un torto commesso ai danni di un prete, da parte di un componente del nucleo famigliare, il quale avrebbe tentato di castrare il prete del paese per renderlo più fedele a Dio. Da qui il sopranome “Castrini”. L’allontanamento dal paese di origine ha portato noi Montagner a stanziarci in un Casone di Valle nei presi del fiume Piave Vecchia a Musile di Piave.
Nel casone, in parte di muratura e con il tetto di paglia, la mia famiglia si è occupata di pesca e della commercializzazione della della canna di palude (opa) per la costruzione dei tetti delle case.
L’arrivo della Bonifica, ha cambiato le sorti della nostra famiglia trasformando i Montagner in agricoltori.
La Prima Guerra Mondiale invece li ha mandati profughi a Siela, paese nel quale è nato mio padre Federico (1918). Questo evento tragico ha portato alla distruzione della nostra abitazione (lungo la prima linea dopo la disfatta di Caporetto) la quale è stata successivamente ricostruita sopra le rovine del casone in mattoni pieni.
Michele: Com’era fatto il casone e come è cambiato il territorio circostante dopo l’arrivo della Bonifica?
Agostino: Il casone aveva una forma quadrangolare e ancor oggi ne rimane un pezzo, ossia l’attuale cucina. Per accedervi ci si serviva della barca, navigando il fiume Piave Vecchia.
L’avvento della Bonifica del Basso Piave ha permesso a noi Montagner di accedere all’abitazione tramite la terra ferma, in un primo momento dalla strada sterrata di Via Stanga, percorrendo poi un tratto del fiume e successivamente dall’attuale Via Canaletta Sicher.
Percorrere gli stradoni sterrati purtroppo è sempre stato un grosso problema soprattutto durante il periodo delle piogge. Ricordo che al matrimonio di mio zio Guido il pullman, della compagnia Ferrari di San Donà, che era venuto a prendere i parenti dello sposo, si era piantato nel fango e dovettero trainarlo con i buoi.
Ritornando ai Sicher, questi sono stati una famiglia nobile di origine austriaca che possedevano dei terreni a Musile di Piave e furono tra i primi pionieri a bonificare queste aree paludose.
Dopo i Sicher subentrarono i fratelli Teso, Francesco detto Checco e Lillo, proprietari anche di altri terreni a Cà Nani, in prossimità di Santa Maria di Piave e ai Salsi e di una bottega di alimentari.
Furono seguiti dai Caberlotto, conosciuti per la “Bonifica Caberlotto” a Castaldia di Musile di Piave. Essi erano proprietari anche di una fornace a Lughignano, quella che nel 1902 ha fornito i mattoni per costruire il campanile di San Marco a Venezia.
Michele: Con l’arrivo dell’agricoltura è stata introdotta la bachicoltura. Come veniva svolta in casa Montagner?
Agostino: Alla fine del mese di aprile ci recavamo alla filanda di San Donà di Piave, dietro il “Forte del 48”, a prendere le uova del baco da seta, circa una o due once di cavallieri (1 oncia = 20,83 gr di uova di baco). Queste venivano tenute in incubazione, tra il seno e il vestito della donna di casa, per circa una settimana a una temperatura costante di 25°C.
La donna di casa Montagner era zia Amelia, moglie di zio Augusto. Si occupava anche delle faccende di casa, aiutata dalle nuore a turnazione.
Con la schiusa delle uova i bacolini venivano alimentati, in principio con delle foglie di gelso sminuzzate, e successivamente con delle foglie intere fino al trentesimo giorno. Un lungo e intenso lavoro che richiedeva molta attenzione agli sbalzi di temperatura e che non conosceva orari. Iniziava così il periodo della filatura nella quale il baco provvedeva a costruirsi il bozzolo (gaeta) che lo avrebbe portato a diventare una farfalla. Il procedimento di metamorfosi veniva fermato prima in quanto la secrezione emessa nel compiere tale azione avrebbe compromesso il colore candido della seta e pertanto bisognava intervenire togliendo il baco dalla crisalide (sgaetare). Terminato questo lavoro i bozzoli puliti venivano portati di nuovo alla filanda.
Ricordo che la nostra casa veniva occupata per tutto il periodo della bachicoltura dai bachi. Li tenevamo nel granaio e nelle camere.
Michele: Cosa mi racconti di tuo nonno paterno. Ha combattuto la prima Guerra Mondiale?
Agostino: Mio nonno paterno Angelo Montagner detto Nini ha combattuto la Prima Guerra Mondiale, con i suoi due fratelli Antonio e Federico detto Barba Rico (dal quale ha preso il nome anche mio padre), come fante a Caporetto (III Armata).
Uno dei suoi due fratelli, Antonio, è stato ferito ad una coscia con una palline di shrapnel che si è portato dentro al corpo per tutto i resto della sua vita.
Barba Rico invece è tornato dalla guerra incolume. Ricordo un episodio che mi fa sempre ridere. Mio nonno Angelo si era accorto che da una botte in cantina mancava del vino e non era capace di capire il motivo, visto che tutte le porte della stanza erano chiuse a chiave. Un giorno si è accorto che il solaio della cantina era bucato e che Barba Rico succhiava il vino da una canna mentre se ne stava comodo sul suo letto al piano primo.
Fin da bambino sono sempre stato curioso dei fatti accaduti in guerra e spesse volte ho chiesto a mio nonno di raccontarmeli. Finiva sempre col piangere oppure tacere dal male che aveva subito in quella brutta situazione.
L’unica risposta che mi ha sempre dato e stata: “in trincea se tratta de mi o ti” (nella lotta corpo a corpo vince il più forte). Ricordo il mio vicino di casa, Fortunato Beraldo, che fino alla vecchiaia ha fumato la sigaretta, il toscano, tenendo il mozzicone dentro la bocca. In trincea, sopratutto di notte, se il nemico vedeva il chiarore del fuoco della sigaretta eri sicuro di morire dal tiro di qualche cecchino.
Fortunato aveva un figlio di nome Primo che ha avuto la sfortuna di combattere la Seconda Guerra Mondiale come bersagliere in Russia. Mi raccontava spesso delle vicende trascorse in battaglia. Tra i tanti episodi mi diceva che era terrorizzato dai cani russi. Il nemico li imbottiva di esplosivo per poi cacciarli verso le linee italiane. I soldati sprovvisti di adeguati indumenti per sopravvivere al freddo sfruttavano il cane per scaldarsi. Quando l’animale si avvicinava al fuoco scoppiava causando la morte delle persone vicine. Primo era riuscito a sopravvivere alla guerra, ma la sfortuna volle che morì molti anni dopo falciato da un’auto mentre attraversava la strada in bicicletta.
Michele: Durante la Grande Guerra lungo la Piave Vecchia vi si trovava una passerella costruita dall’esercito italiano per attraversare il fiume. Sei a conoscenza del luogo esatto dove si trovava?
Agostino: La passerella pedonale si trovava circa a m.150 più a nord-est della nostra casa (di fronte alla casa Mengo e in prossimità della vecchia azienda del Conte Vergelio poi OldRiver). Era una passerella fatta di botti e travi. Mio papà, dopo la guerra, non andava mai a pescare con la rete a strascico in quel luogo in quanto sott’acqua vi si trovavano diversi detriti. Quando hanno dragato il fiume per la navigazione fluviale hanno pulito tutto. Dopo la guerra nei campi attorno a casa nostra noi bambini abbiamo trovato tante bombe ed eravamo di continuo in pericolo. Le gettavamo vicino a un vecchio albero nella Piave Vecchia. Oggi sono sempre lì a centinaia. Nell’aia di casa nostra i vecchi mi raccontavano che durante la pulizia dei campi avevano accatastato una montagna di bombe e quant’altro che poi sono state portati via dai camion. Mi ricordo inoltre di tutti i fucili 91, le pistole, ecc. che abbiamo gettato nel fiume, l’unico luogo per noi più sicuro. Lungo la riva della Piave Vecchia abbiamo trovato un deposito di armi e polvere da sparo dell’esercito italiano. Quest’ultima era raccolta in sacchi dove al loro interno vi si trovavano dei fasci di spaghetti neri come la pasta da mangiare. Per tanti anni ho conservato, per ricordo, le ruote dei cannoni. Quando eravamo incerti sulle bombe trovate nei campi chiamavamo gli artificieri, i quali si rivolgevano ad Aldo Busato da Passarella per capire il tipo di ordigno, se era pericoloso oppure no. Veniva spesso qui da noi a trovarci. Abbiamo conservato qualche reperto bellico inoffensivo e arrugginito dal tempo, appeso alla facciata della nostra casa.
Michele: Cosa mi racconti di tuo padre. Ha combattuto la Seconda Guerra Mondiale?
Agostino: Dopo la leva militare mio padre Federico è stato imbarcato immediatamente ad Anzio e inviato a combattere in Africa ad El Alamein. Durante il viaggio la nave che lo ospitava è stata affondata dagli Americani e coloro che si sono salvati, compreso mio padre, sono stati arruolati come carristi nell’esercito Americano e mandati a combattere ad El Alamein contro l’esercito italiano. Dal naufragio si è salvato anche Nino Turci da Fiera di Primiero che è diventato negli anni del dopoguerra il suo compare di nozze. Mio padre ha partecipato anche alla liberazione dell’Italia assieme agli Alleati. Mi ha raccontato di quando capitavano i momenti di calma nella quale aiutava i contadini della Toscana ad arare i campi trainando l’aratro con il carro armato. Questa esperienza gli ha permesso di trovare presto un lavoro nel dopoguerra come autista dei trattori per l’agricoltura. Ha svolto anche altri compiti tra i quali il “paieta” ossia l’addetto ad accompagnare i fasci di frumento nel battente della mietitrebbia in modo da farli scendere dalla macchina in modo regolare. Tra la leva militare e la guerra mio padre è rimasto lontano da casa ben otto anni durante i quali non ha mai avuto modo di comunicare con i suoi famigliari e nemmeno con la sua fidanzata, mia madre. A forza di attendere una lettera dal fronte, mia madre ha fatto amicizia con il postino che consegnava alle Cascinelle, e lui l’ha sempre chiamata scherzosamente Lala e non Laura, il suo vero nome. Per rassicurarla le aveva detto di non perdere la fiducia in quanto il suo fidanzato primo o poi sarebbe ritornato a casa. Mio padre è tornato nel 1945. Finita la guerra i miei genitori si sono sposati e nel 1947 sono nato io, Agostino, poi Walter nel 1948, a pochi mesi di distanza. Successivamente è venuta al mondo una sorella che è morta a due anni di età per un soffio al cuore, poi Claudio nel 1957 ed Enrica, che ha preso il nome della bambina morta, nel 1964.
Michele: Che lavori hai svolto nella tua vita?
Agostino: Ogni mattina venivo svegliato da mio nonno con una bacchettata alla testa perchè dovevo andare ad accudire le bestie nella stalla (varnar) in orario. Io e i miei nonni dormivamo assieme in una stanza accanto alla cucina. Lui sul letto matrimoniale e io in un lettino accanto. Dopo la mungitura partivo in bicicletta e mi recavo a lavorare a San Donà di Piave per poi ritornare e ripartire nella pausa pranzo. Il mio primo lavoro l’ho svolto nell’autofficina dai fratelli Luigi e Gino Scalon, quelli autorizzati Ford di San Donà di Piave. Successivamente ho lavorato come elettricista presso la ditta Marchiol di San Donà di Piave e dopo da Masiero a fare gli impianti elettrici civili e industriali. Ho lavorato negli impianti delle maggiori cantine tra cui Gaggiato a Noventa di Piave, Botter a Fossalta di Piave e Luciano Cannella a San Donà di Piave. Andavo anche in trasferta a San Daniele del Friuli da Bidoli, il cognato della moglie di Giovanni Botter. Oggi, lavoro per conto mio e aggiusto lavatrici.
Michele: Raccontami dell’alluvione del novembre 1966?
Un giorno, (sabato 5 Novembre 1966) ritornando a casa dal lavoro per la pausa pranzo, la gente che ho incontrato per la strada mi disse che il fiume Piave aveva rotto gli argini e che l’acqua della piena si stava avvicinando in fretta alle nostre abitazioni. Qualcuno mi ha raccontato che il paese di Croce era già stato sommerso. Terminata la pausa pranzo ho preso la mia bicicletta intento a ritornare al lavoro, ma resomi conto della tragica situazione sono ritornato a casa. Ero rammaricato per non aver potuto avvisare il mio datore di lavoro e in quel periodo non avevo nemmeno il telefono. I miei famigliari mi hanno avvertito che le case lungo via Pietra a Musile di Piave stavano per sommergesi e pertanto ho cercato di portare i primi soccorsi agli abitanti con la barca che tenevo nella cavana e con il trattore Landini 45, fin dove si poteva ancora correre. Sono riuscito a rimorchiare il natante oltre l’argine San Marco e ormeggiarlo in prossimità dell’acqua che si stava avvicinando. Con l’aiuto dei famigliari e i vicini di casa, che si sono resi disponibili, abbiamo portato in salvo tanta gente e diverso bestiame. Le persone più vecchie che non camminavano me li sono portati sulle spalle con l’acqua che mi arrivava al bacino. Ad un certo punto abbiamo preso paura quanto l’avantreno del trattore ha cominciato a sollevarsi e galleggiare e a quel punto abbiamo deciso di proseguire con la barca. Qualche anziano però si è ostinato ad abbandonare la propria casa ed è finito col chiedere aiuto sopra il tetto dell’abitazione. Mi ricordo che una persona attempata mi ha chiesto di aiutarla a portare all’asciutto la legna tagliata che teneva dentro la “meda”. Le ho spiegato del pericolo a cui andavamo entrambi incontro, ma per la sua insistenza e la mia bontà l’ho aiutata, legando il grande contenitore con del fil di ferro, mentre l’acqua mi arrivava al collo. Non soddisfatta di quanto le avevo fatto mi ha chiesto di proseguire il lavoro anche con i conigli, ma mi sono rifiutato. L’ho lasciata li al primo piano dove si è rifugiata. In un altro episodio mi sono ritrovato a mettere in salvo un maiale che il proprietario dell’animale aveva liberato dal porcile e che per paura si era rifugiato e incastrato sopra il letamaio. Siamo riusciti a spingerlo al piano primo dell’abitazione rischiando di rovesciarci con la barca. Tutti gli abitanti di Via Pietra li abbiamo ospitati a casa nostra, almeno per superare la nottata. Eravamo in novantasei persone. Abbiamo diviso la casa in ordine di età: i ragazzi e i bambini dormivano sul granaio con dei sacchi posizionati a terra mentre i più anziani nelle camere, una dozzina di individui per stanza, alcuni distesi nei letti e altri sul pavimento. Per fortuna la nostra abitazione fu l’unica a non essere sommersa.
Michele: Chi è Piero Pesca?
Pietro Maschietto detto “Piero Pesca” è sempre stato un buontempone, fratello di mia nonna (mamma del papà di Agostino). Ha sempre avuto un ruolo importante come falegname in quanto aggiustava carri e attrezzatura da lavoro per i contadini della zona. Si è divertito soprattutto a prendere in giro le presone. Un giorno una signora di nome Iia, che abitava a Musile, gli ha commissionato la costruzione di un attrezzo in ferro per sostenere la pentola della polenta sopra il fuoco (cavedon) in cambio di quattro salami e quattro musetti. Pietro ha provveduto alla costruzione dell’arnese, ma di legno, e quando la signora lo ha messo sul fuoco si è bruciato.
In un altro episodio il prete di Musile, don Rizzato ha chiesto a Pietro di aiutarlo a insaccare il maiale dopo l’uccisione. Il giorno stabilito, dopo tutti i preparativi per procedere all’operazione, Pietro si è presentato dal parroco e dal “porziter” con una grande bisacca, volendo a tutti i costi insaccare il maiale per intero e ancora vivo. Ricordo anche quando, una sera d’inverno, ha fatto uno scherzo a sua sorella mentre tornava a casa dal lavoro. Lei prestava servizio presso una bottega di sarti, gli Iseppi. Era solita portarsi presso la chiesa di Musile di Piave e percorrere via 29 aprile. Nei pressi del vecchio cimitero, che si trovava nell’attuale Parco del Granatiere, suo fratello è sbucato fuori all’improvviso, col buio da una colonna del muro di cinta, avvolto da un lenzuolo bianco. Sua sorella si è spaventata a morte ed è scappata a gambe elevate fino a casa.
Un ringraziamento speciale alla testimonianza di Agostino Montagner – Sabato 20 luglio 2019 – Via Canaletta Sicher – Musile di Piave
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